Un
giovane si fermò improvvisamente a guardare verso il mare. Aveva visto una piccola nave.
Stupito da quell’insolito approdo, discese dal colle e lanciò un richiamo: “Chi siete? ”.
Un guerriero, che procedeva dinanzi agli altri, fissò il
giovinetto e sorridendo rispose: “Sono Enea, capo dei Troiani.
Nella terra di Evandro vengo a cercare alleati ed armi contro i Rutuli
ed il loro feroce re Turno”.
Enea e il giovane, che altri non era se non il principe Pallante, salirono insieme per il declivio, seguiti
dai Troiani; oltrepassarono il crinale, scesero a valle fino in vista
del Palatino, su cui sorgeva Pallantea, la città dei pastori.
Evandro distese le pelli più ricche perchè i Troiani
potessero riposare, offrì pane buono e miele, ascoltò
Enea, che gli chiedeva alleanza.
“Gli dei mi hanno indicato l’Italia ed hanno predetto che
dalla mia gente sarà fondata una città potente, grande,
dominatrice del mondo: perchè i destini si compiano anche il tuo
aiuto è necessario”.
Allora Evandro fece suonare il rustico corno per riunire i pastori a
parlamento e ordinò a quelli più giovane e più
robusti di armarsi d’arco, di frecce, di lance, di corazzecombattere. Anche il giovane Pallante volle aiutare Enea.
E le schiere raggiunsero il
Tevere, ne seguirono le sponde ed arrivarono in campo aperto di fronte
ai Rutuli.
La battaglia fu furiosa da ambo le parti.
Il principe si gettava nelle mischie più pericolose e non
esitava ad accettare i corpo a corpo con i guerrieri nemici più
anziani e poderosi.
Ad un tratto si trovò di fronte al gigante Turno, il re dei Rutuli.
“Fanciullo, è temerario provarsi con me". Nonostante il pericolo Pallante non si ritira e
scagliò la sua asta di solido frassino,
ferrata e tagliente alla cima. L’asta battè sullo scudo di
Turno, ma fu rigettata all’indietro.
“Ora sostieni tu la forza del mio colpo!” gridò il
re dei Rutuli. E scagliò con forza. L’asta terribile
trapassò lo scudo del giovanetto, lacerò la corazza, e
gli si confisse nel petto.
Quando
il mesto corteo che portava le spoglie di Pallante fu in vista dei
luoghi paterni, il vecchio re scese incontro al diletto figlio; si
chinò su di lui, quasi a ricercarne il respiro e, sentendolo
gelido, si accasciò giù come quercia colpita dal fulmine.
Pallante
fu sepolto in una grotta, che si apriva nel Colle Palatino, e su di lui
venne posta una lampada accesa; poi la tomba fu chiusa con sassi e
terriccio.
Passarono gli anni e passarono i secoli…
Il Palatino vide dal solco di Romolo sorgere la Roma quadrata; la vide
allargarsi, la vide dominare i popoli italici, la vide signora di
popoli e di civiltà. Ed altri secoli passarono…
Un giorno, come turbine di guerra, i barbari si gettarono
sull’Urbe, la misero a ferro e a fuoco, rovistarono ovunque,
avidi di bottino.
Alcuni, battendo con le aste dove il Palatino infoltiva di corbezzoli,
sentirono la terra rimbombare come se dentro fosse vuota. Stupiti,
svelsero gli arbusti, scavarono, scavarono fino a ritrovare una grotta:
e in fondo videro scintillare un lume.
Avanzarono timorosi e sotto il luccicore d’una lampada scorsero
un corpo grande e giovanile, intatto e chiuso nelle sue lucide armi.
Vinto lo sgomento, i barbari staccarono la lampada e vi soffiarono
sopra: la fiamma si piegò, guizzò, ma non si spense.
BEATRICE
Il prodigio li impaurì: compresero che qualcosa di misterioso
proteggeva la piccola lingua di fuoco. Tornarono nella grotta, appesero
la lampada accesa vicino a Pallante, mirarono per un attimo i
bellissimi lineamenti del giovinetto, poi arretrarono fino
all’aperto, accumularono nuovamente sassi e pietre
all’entrata della tomba, quindi vi ripiantarono i corbezzoli
estirpati. Poi si allontanarono, volgendosi di tratto in tratto a
riguardare il colle, che chiudeva un mistero per essi insolubile:
quello della lampada accesa, simbolo della luce di Roma che non
può morire.
(VA)